Capitolo 17 Saggezza e Consigli


LA MILIONARIA CHE AVEVA IL DIABETE
Quando un medico deve curare malattie gravi o difficili da trattare, si preoccupa molto del risultato a cui vuole arrivare. Come possiamo superare questo dilemma?

Il Sé è, di fatto, circondato da tre corpi, fisico, sottile e causale, e tutti e tre i corpi sono interconnessi. A livello fisico c’è lo stato di salute e lo stato di malattia (delle molte malattie). A livello sottile della mente, ci sono sia le malattie causate da erronei punti di vista, che quelle che derivano da malattie fisiche. Infatti, in ultima analisi, molte malattie fisiche si originano da qualcosa che non funziona a livello mentale. La malattia fisica deve essere trattata con strumenti fisici appropriati, la malattia mentale con buone idee e migliorando il comportamento e il modo di pensare, e il corpo causale con stabilità emotiva e verità emozionali.

Ci sono due tipi di pazienti, quello affetto da malattia fisica che assume le prescrizioni e si attiene alle raccomandazioni sorridente e fiducioso, e c’è l’altro tipo di paziente che non accetta il trattamento e il suo atteggiamento ritarda il processo di guarigione. Le persone devono essere trattate a livello mentale e allo stesso tempo si deve dar loro la cura per il corpo.

C’era una milionaria di Delhi che soffriva di diabete. Amava molto i dolci, che si procurava in segreto tramite i suoi servitori. Il suo medico e la sua famiglia ignari, divennero molto preoccupati in quanto più il medico la curava, più lei peggiorava, dato che mangiava dolci in segreto.

Venne chiamato un nuovo medico. La visitò prima di colazione ed esaminandola sospettò che avesse qualcosa nello stomaco nonostante negasse di aver mangiato. I famigliari a loro volta sostenevano che non toccava cibo da tre giorni. Di fatto ella si era alzata presto, aveva ottenuto ancora dolci dai servitori e li aveva mangiati.

Il nuovo medico continuava a sospettare che avesse qualcosa nello stomaco. Interrogando i servitori insistentemente, scoprì la verità sulla questione e così riuscì a mettere le cose a posto.

Riguardo al dilemma, non esiste! Se si fa il proprio lavoro, il risultato viene da sé.


IL CONSIGLIO DEL SANT’UOMO ALLO STORPIO

Un uomo ricco ebbe tre figli maschi, il più giovane era storpio. Il padre se ne prese cura finché fu in vita, ma dopo la sua morte lo storpio non ricevette più attenzioni da parte dei fratelli e passava le giornate sdraiato sulla porta di casa implorando cibo e acqua. Un giorno passò un sant’uomo, lo storpio gli raccontò la sua storia e gli chiese consiglio. Il sant’uomo lo condusse fuori dal villaggio e lo fece sedere sotto un albero di banyan. Gli chiese di restare così per tre giorni senza mangiare né parlare con nessuno.

Quando le persone lo videro seduto lì immobile, senza mangiare e senza parlare con nessuno per tre giorni, s’incuriosirono e pensarono che dovesse essere un grande mahatma. Quando si sparse la voce, lo vennero a vedere da luoghi vicini e lontani. Così grandi furono le offerte di frutta e dolci, da poter sfamare cento uomini invece che uno. Il sant’uomo non gli aveva dato ne’ metodo né insegnamento, ma semplicemente facendo ciò che quest’ultimo gli aveva suggerito, la vita dello storpio cambiò in meglio.


IL BRAMINO CHE LASCIO’ DICIANNOVE VACCHE 

La matematica e la fisica in occidente sono diventate talmente complicate da non essere più in relazione con la vita pratica di un padre di famiglia. Ma di recente abbiamo conosciuto uno o due professori di matematica e fisica che meditano con notevole beneficio. Sarebbe utile poter dimostrar loro che la saggezza antica potrebbe risolvere i loro problemi in modo più semplice. Se la nostra versione della storia che segue, e con la quale potremmo magari iniziare, è accurata, ovviamente la riconoscerai.

Molto tempo fa, nel paese del Re Dharmasana, viveva un anziano bramino che aveva tre figli maschi e possedeva null’altro al mondo che diciannove vacche. Prima di morire chiamò i figli e disse loro: ‘Figli miei, sono tra le fauci della morte, quindi ascoltate attentamente. Tutto ciò che ho da darvi sono queste diciannove vacche; dividetele tra voi in questo modo: lasciate che il maggiore ne prenda la metà, il secondo un quarto, e il più giovane la quinta parte. Se dovesse esserci un avanzo, dovrete mangiarlo tutti e tre; nel caso contrario, tutte le vacche andranno al re, e la mia maledizione vi colpirà.’ Detto ciò il vecchio bramino morì.

Quando dopo aver eseguito i riti funerari, si riunirono per dividere la proprietà, il fratello più grande disse: ‘La metà di queste vacche, e cioè otto vacche e mezza sono mie.’ Il secondo fratello disse: ‘Un quarto, e cioè, quattro vacche e tre quarti di vacca, sono miei,’ e il più giovane disse: ‘Il restante quinto, e cioè, tre vacche e quattro quinti di vacca sono miei.’

Il più grande allora osservò, ‘La somma di tutto equivale solo a diciotto vacche e una frazione. Ma come è possibile per dei bramini mangiare carne bovina, oppure prendere diversi pezzi di una vacca lasciandola viva? Tuttavia, a meno che non dividiamo nelle giuste proporzioni, tutte le vacche andranno al re, e la maledizione di nostro padre cadrà su di noi. Perché mai nostro padre ci ha lasciato con un dilemma così terribile?

Dopo aver dibattuto giorno e notte, decisero di portare il loro problema al cospetto di un sant’uomo. Questi dopo aver pensato un momento rispose, ‘Lasciate che i fratelli abbiano in prestito un’altra vacca. Poi lasciate che il maggiore prenda la metà di venti vacche, o dieci vacche, il secondo un quarto, o cinque vacche, e il più giovane un quinto, o quattro vacche. Lasciategli restituire poi la vacca avuta in prestito. Così le diciannove vacche saranno divise secondo le istruzioni del padre, senza avanzo. Ciascun fratello riceverà più di quanto non avesse calcolato, e finalmente il re sarà compiaciuto. Perché essendo un re giusto, quale maggior dispiacere che avere nel suo regno bramini che non solo uccidono e mangiano vacche, ma le fanno a pezzi, venendo meno al tempo stesso alle ultime volontà dettate dal padre morente.

Ho sempre pensato che la chiave di lettura di questa storia fossero le leggi della natura, perché la natura preferisce sempre i numeri interi alle frazioni. Ma recentemente ho percepito anche un altro significato: ogni qualvolta poniamo un problema, quantunque complesso, al cospetto dell’Assoluto o di un suo rappresentante, il sant’uomo, la risposta ci viene restituita in forma talmente innovativa e semplice da farci esclamare: ‘Perché non ci avevo pensato?’

A proposito della storia del bramino e dei suoi figli, c’è anche un significato psicologico. La somma dei cinque organi in azione, più i cinque organi di senso più i cinque prana (energie vitali), insieme a mente, intelligenza, memoria e ego fa diciannove, ed essi costituiscono il corpo dei figli. Questo erano le diciannove vacche. La ventesima vacca, presa in prestito, e che facilita la spartizione, era la saggezza e non ha costituito parte del corpo. Naturalmente è stata lasciata fuori in quanto ha soltanto facilitato la divisione e non è di fatto entrata a farne parte.

Fisici e matematici dovrebbero comprendere che nelle leggi della natura non vi sono in alcun modo anomalie. C’è peraltro un’omogeneità diffusa. Per questo le leggi naturali sono così suscettibili alla ragione e in fondo calzano a pennello una nell’altra semplicemente e meravigliosamente. La saggezza antica aiuta a risolvere i problemi con facilità. È totalmente racchiusa negli antichi granthas (libri). Ma leggendoli semplicemente nessuno riesce a risolvere i problemi, perché i granthas contengono i granthis (nodi) che possono essere sciolti soltanto da insegnanti esperti.

Per esempio, se viene prescritto arsenico come cura per una particolare malattia, ci vuole un uomo di medicina per stabilire quale dosaggio e in che forma l’arsenico deve essere somministrato.

Questi granthis o nodi sono a volte inseriti apposta, come illustrato nella prossima storia dell’oro sepolto.

 

L’ORO SEPOLTO

Un uomo ricco costruì un tempio. Il giorno di Vijay Dashma alle quattro del del pomeriggio, seppellì quattro recipienti pieni di monete d’oro nel punto del terreno dove appariva l’ombra del pinnacolo del tempio. Lasciò una nota nel suo testamento per i suoi figli in cui diceva di aver seppellito quattro recipienti pieni di monete d’oro alle quattro del giorno di Vijay Dashma al pinnacolo del tempio. Avrebbero potuto recuperarli se e quando si fossero trovati in difficoltà finanziarie.

Col tempo i figli ebbero difficoltà finanziarie. Ruppero il pinnacolo e non trovarono nulla. Poi scavarono tutto il tempio in cerca dei recipienti, ma ancora niente. Essendo nei guai per necessità di denaro, ne parlarono con tutti. Un giorno un mahatma passava di lì e anch’egli venne a conoscenza del loro problema. Dopo aver ben ispezionato il luogo chiese di ricostruire il tempio com’era. Questo fu facile perché il materiale di costruzione del tempio era ancora lì. Poi chiese loro di richiamarlo il giorno di Vijay Dashma, e così fecero.

Egli vide dove l’ombra del pinnacolo del tempio cadeva alle quattro di quel giorno, e chiese ai figli di scavare in quel punto. I recipienti furono trovati dopo aver scavato soltanto pochi piedi.

Tutto ciò dimostra che ci sono tre tipi di buona compagnia. Prima c’è quella fisica che soltanto sente e apprezza, l’altra è la conoscenza che discrimina, e cerca di mettere in pratica, e la terza è la verità o compagnia del Sé che conosce e professa e mostra la via, perché detiene la chiave di tutti i problemi.

Ci sono persone che hanno dentro una quantità di purezza e luce da far sì che in modo naturale la loro risposta sia di apprezzamento per le parole buone che sentono. A causa della mancanza di una sufficiente luce essi si fermano lì e non si fanno domande, tantomeno mettono in pratica gli insegnamenti. Questa è la parte più grossolana della buona compagnia. Il secondo tipo fa domande perché pensa di mantenere puro l’insegnamento e farlo diventare più concreto, inoltre si sforza di metterlo in pratica.

La vera conoscenza appartiene a tutti e infatti tutti conoscono la verità, ma in questa fase della creazione è stata dimenticata. Cosicché la conoscenza deve sempre essere trasmessa dagli uni agli altri. Pertanto anche questa tradizione è stata acquisita perché tramandata dal Creatore e a tutt’oggi ancora esiste. Uno deve ereditare, essere istruito, e poi tramandare. Così, pur essendo sempre in prestito, la conoscenza in verità, appartiene a ognuno. C’è, ovviamente, un rischio nel pensare che la conoscenza ci appartiene, perché uno ne può andare fiero e rivendicarla. Ciò lo renderebbe incapace di apprezzare un’ulteriore e più sofisticata conoscenza.

Il terzo tipo di buona compagnia eredita tutto e utilizza completamente la vera conoscenza.

 

AJAMILA E IL NOME DI SUO FIGLIO

Nella tradizione indiana il ruolo dei sant’uomini – i mahatma – è molto importante. I mahatma conducono una vita speciale, ma appaiono anche nella vita ordinaria, e quando ciò accade essi portano sempre consiglio, un qualche tipo di consiglio utile, cosicché senza arrecare disturbo alla vita dell’uomo ordinario o al suo stato d’animo, contribuiscono in un modo che è utile all’individuo direttamente, anche se questi è inconsapevole dell’importanza del consiglio ricevuto.

La storia Ajamila è un esempio di tale utile consiglio pratico.

Ajamila era un uomo ordinario impegnato in una vita ordinaria, senza alcuna predisposizione alla santità. Una volta un mahatma capitò nella sua città e mangiò a casa sua e volle, in cambio, dargli dei consigli utili. Quindi il mahatma gli chiese: ‘Cos’è che ti attira maggiormente? C’è qualcosa a cui sei attaccato più di tutto?’

Ajamila disse: ‘Sono più di tutto attaccato a mio figlio minore.’ Quindi il mahatma gli chiese di chiamare suo figlio minore col nome di Narayana. Pertanto, ogni volta che doveva chiamare il ragazzo, lo avrebbe chiamato con quel nome, e così fece.

Nient’altro fu richiesto ad Ajamila; non gli fu prescritta disciplina alcuna o altro, gli fu dato semplicemente questo consiglio. In punto di morte, come sempre, senza saperlo, chiamò Narayana, il suo figlio piccolo, e per merito di questo nome, i messaggeri di Narayana (Vishnu) apparvero e lo liberarono.

In India vi sono templi in cui sono scolpite statue in pietra, e nel professare la loro devozione le persone vi si prostrano al cospetto in venerazione e preghiera. In effetti non è la statua in pietra che viene venerata, è l’idea della divinità sovraimpressa su questa statua di pietra. Ed è per via della devozione verso quest’idea particolare di divinità che la venerano. Ma per quanto riguarda i nomi, i mantra, questi sono molto potenti pur non essendoci alcuna forma attaccata a essi. Infatti, il nome Narayana rappresentava un mantra che, ignaro, Ajamila recitava regolarmente chiamando suo figlio.

Analogamente nella meditazione ci vengono date determinate parole, la parola non ha altra forma che il suono vocale; non è collegata a nessuna particolare deità, tantomeno a particolari significati, è solo un suono, ma è un suono creativo.

Tutti i suoni sono creativi, così quando viene dato un mantra, questo suono creativo diventa il veicolo di trasformazione dell’individuo. Così, siccome Ajamila usava pronunciare il nome Narayana, che è molto simile a un mantra, le forze coinvolte nel suono venivano messe in moto per il suo sviluppo personale. Come per un fuoco – se lo tocchi, che tu lo sappia o meno, inevitabilmente ti brucia, ti provoca dolore. Nella stessa, identica maniera, un mantra, che tu ne abbia o meno conoscenza alcuna, ti verrà in aiuto se lo pronunci, e ti porterà alla liberazione.

 

IL MAHATMA CHE PIANSE

Quando uno è contento ed emana una luce calda, le limitazioni fisiche imposte dall’anziana carne e dalle anziane ossa sembrano diminuire con la cura e l’attenzione posta nel parlare e nel muoversi. È così che si può ancora servire il Sé?

Il Sé non è vincolato da tempo, spazio, e cambiamenti, quindi non invecchia mai, non si arrugginisce mai; è soltanto il mondo fisico ad essere governato da tempo spazio e cambiamento. Essere vecchi o giovani si riferisce soltanto al corpo, ma non è applicabile al Sé. Quando uno è caricato da energia emozionale, o da energia intellettuale, queste portano quella luce di gioia con annesso il calore del cuore che si diffonde nel corpo. Il corpo si sintonizza, e funziona un pochino meglio che in circostanze ordinarie, ma l’uomo carico di energia, che non ha distrazioni, è molto più in comunione con il Sé, e la sensazione di essere vecchio sparisce facendolo funzionare esattamente allo stesso modo di un giovane. Questo è il senso del Sé – uno si comporta in modo appropriato, parla in modo appropriato, e questo è il modo non solo di servire il Sé ma di essere il Sé.

C’era un sant’uomo, e uno dei suoi discepoli perse un figlio. Pieno di dolore e agonia andò dal sant’uomo e iniziò a piangere. Il sant’uomo pure iniziò a piangere e a singhiozzare ancor più sommessamente che lo stesso padre. Nel vedere ciò, il padre cessò di piangere e domandò al sant’uomo perché stesse piangendo. Il sant’uomo disse di non poterne fare a meno in quanto sentiva le stesse sue emozioni per suo figlio, come se fosse morto il suo stesso figlio, sicché pure lui aveva quella sensazione – era naturale. Il padre smise di piangere e tornò a casa convinto di non essere solo nella sua sofferenza, c’erano altri con lui, anche il sant’uomo.

Un altro uomo tra il pubblico chiese al sant’uomo, dopo che il padre se ne fu andato, perché avesse fatto una tal cosa, in quanto un sant’uomo non dovrebbe mai mostrare simili slanci di dolore o di piacere, questo è quanto egli aveva sempre indicato a tutti, eppure era caduto nello stesso vizio terreno.

Il sant’uomo disse che se avesse provato a dare sollievo al padre con sagge parole, non sarebbe arrivato molto in profondità nel cuore dell’uomo; egli le avrebbe accolte, ma il suo dolore sarebbe durato di più. Quando il sant’uomo iniziò a piangere, l’uomo sentì simpatia, e attraverso la simpatia vi è stata condivisione del dolore ed il suo peso si è alleggerito, e poi non si è sentito solo al mondo, così non ha più bisogno di preoccuparsi e non si preoccuperà più. Il sant’uomo disse che il dolore del padre era reale, ma il suo non lo era, anche se sapeva come recitare il dramma molto bene, e ha funzionato. Il suo compito in qualità di sant’uomo era molto simile a quello di un postino che recapita centinaia di lettere, alcune di esse portano buone notizie, altre portano cattive notizie, notizie tristi, etc. Tuttavia il sant’uomo non si farebbe mai coinvolgere, anche se l’espressione in viso potrebbe cambiare al momento di recapitare la lettera, il coinvolgimento non c’è. Bisogna recitare la parte, quella ritenuta più adatta al momento, ma in realtà il sant’uomo non è mai coinvolto nel dolore e nel piacere in sé stessi.

 

L’UOMO CON LA LANTERNA

Ogni persona è dotata di determinate doti o talenti da utilizzare per sé, per la propria famiglia, per la società, per la nazione e così via. Tutti dobbiamo capire quanta energia abbiamo a disposizione in una determinata situazione.

Il principio è che uno non deve pensare a ciò che non può fare; dovrebbe tenere sempre in mente ciò che può fare.

C’era un uomo che doveva viaggiare dieci miglia per sbrigare del lavoro urgente. Era sera tardi ed era molto buio. Prese la sua lanterna e uscì di casa. Si rese conto che sarebbe stato buio pesto per tutte le dieci miglia fino a destinazione. Pensò alla sua piccola lanterna e si chiese come avrebbe potuto orientarsi in tale oscurità. Fortunatamente, un sant’uomo passò di lì e chiese all’uomo perché esitava. Questi espresse la sua paura di viaggiare dieci miglia con una lanterna che illuminava soltanto dieci piedi. Il sant’uomo fece notare che con ogni passo anche la luce si sarebbe spostata in avanti – sarebbe sempre stata dieci piedi avanti a lui per cui non si doveva preoccupare ma solo procedere. Così fece, e raggiunse la sua destinazione sano e salvo.

Qualunque potere sia stato dato all’individuo dovrebbe essere usato nel miglior modo possibile. L’elettricità è fornita attraverso fili appositi e connessioni, ma chiunque cerchi di usare un dispositivo di 110 volt per distribuire 240 volt lo brucerà. Ciò vuol dire che gli individui, avendo ricevuto determinati limiti con i quali manifestare la gloria dell’Assoluto, non possono pretendere o esercitare extra potere perché non sono destinati a questo. Questo lo dobbiamo capire tutti noi.

La formica ha una potenza di una certa misura e deve eseguire le sue attività entro quei limiti. L’elefante ne ha ricevuta una misura diversa, e di conseguenza, un corpo diverso. La formica non può compiere le gesta di un elefante, tantomeno l’elefante potrà compiere le gesta della formica.